L’esordio letterario di Xu Ruiyan si ispira alla sua esperienza personale, in bilico tra due Paesi e due lingue
Xu Ruiyan è nata a Shanghai. All’età di dieci anni lascia la Cina per trasferirsi negli Stati Uniti, senza conoscere nemmeno una parola di inglese. Elementi biografici che si ritrovano tra le pagine del suo primo romanzo Le parole dimenticate (Piemme, 2012).
Cina e Stati Uniti, cinese e inglese, presente e passato. Due Paesi, due lingue e due tempi che si intrecciano in una storia che parla di amore e imprevisti, parole e silenzi, intese e incomunicabilità.
Li Jing è un brillante uomo d’affari, dalla vita apparentemente perfetta, che si sgretola in un attimo, quando rimane sotto le macerie di un lussuoso hotel di Shanghai. Al suo risveglio si ritrova in un letto d’ospedale, con accanto sua moglie Meiling. Si è miracolosamente salvato, ma quello che gli è successo rimette in discussione tutta la sua vita e gli equilibri che la caratterizzavano fino a quel momento.
Appena parla, infatti, Meiling non comprende le parole che lui pronuncia. Li Jing parla solo in inglese, la lingua della sua infanzia, degli anni in cui viveva negli Stati Uniti con suo padre. Non ricorda più il cinese. Lo comprende, ma non riesce a parlarlo.
Per aiutarlo viene reclutata una giovane dottoressa americana, Rosalyn Neal, che vola a Shanghai per seguire questo caso particolarmente complesso, lasciandosi alle spalle una vita che non la soddisfa. La terapia porta Li Jing e Rosalyn a costruire un’intesa particolare, difficile da capire per Meiling, tagliata fuori da qualsiasi forma di comunicazione con suo marito. E mentre il figlio si sforza di apprendere l’inglese per ritrovare un contatto con suo padre, Meiling si irrigidisce, sente il peso della responsabilità e dei problemi e, quasi senza rendersene conto, si allontana sempre più da lui.
Il filo conduttore della storia, quindi, è il disagio provocato dalla barriera linguistica nella quotidianità dei personaggi e nei rapporti tra loro. Se, infatti, Li Jing non riesce più a comunicare con sua moglie, suo figlio e i suoi colleghi, incapace di riprendere i ruoli che ricopriva prima dell’incidente, Meiling non può parlare né con lui né con la dottoressa Rosalyn Neal, si sente esclusa dal loro rapporto sempre più esclusivo e costretta a sostituirsi al marito nel lavoro in un ruolo che non sente suo.
È difficile, pensa Meiling, conoscere davvero chi viene da un altro paese; il fatto che siano stranieri tende a oscurarne la personalità. Non riesci mai a capirli fino in fondo, come invece avviene con un cinese, una persona con cui condividi le stesse abitudini e lo stesso ambiente, a cui riesci a leggere in faccia quello che gli passa per la testa, carpendo i suoi segreti più profondi, il non detto nascosto tra le righe.
Allo stesso tempo, anche Rosalyn vive una situazione simile: può comunicare con i cinesi intorno a lei solo grazie a un interprete e soltanto con costanza e ostinazione riesce ad aprire un canale di comunicazione con il suo paziente.
Ogni personaggio della storia è ben caratterizzato, lo stile è semplice e scorrevole, l’intreccio efficace. Forse la fine risulta un po’ sbrigativa rispetto al resto del romanzo, ma nel complesso è un esordio letterario riuscito.
Il tema del linguaggio, dell’importanza delle parole e della comunicazione, a diversi livelli e nei differenti rapporti interpersonali, tiene insieme la storia fornendo al lettore molteplici punti di vista e spunti di riflessione.