È l’unica lingua al mondo creata e utilizzata esclusivamente da donne, espressione di una cultura e di una società patriarcali in cui la loro vita era segnata da sofferenze e privazioni
Non è facile definire in una parola che cos’è il Nüshu. Per Giulia Falcini, autrice del libro Il Nüshu – La scrittura che diede voce alle donne (CSA Editrice, 2020), il termine più corretto è «fenomeno», perché il Nüshu non è solo una scrittura, ma ha anche implicazioni sociali e culturali. Solo considerando tutti questi aspetti nel loro complesso è possibile comprenderlo in profondità. E questo libro fa proprio questo. Giulia Falcini, infatti, accompagna il lettore in un viaggio alla scoperta di questo fenomeno, nei luoghi in cui ha avuto origine, in particolare nel villaggio di Puwei, nella contea di Jiangyong, nella provincia dello Hunan, nella Cina sud-occidentale.
Come spiegato dall’autrice nella prefazione, il Nüshu è «l’unica lingua al mondo creata e utilizzata esclusivamente da donne». Ma a differenza di come si credeva fino a qualche anno fa, non perché fosse tenuta segreta dalle donne e quindi gli uomini ne fossero esclusi, semplicemente non erano interessati a conoscere questo «codice fatto di caratteri romboidali, dalla forma longilinea ed elegante», utilizzato dalle donne per esprimere se stesse con quella libertà che mancava loro nella società patriarcale in cui vivevano. Fu così fino a quando alle donne fu concesso di accedere all’istruzione e quindi cominciò il loro processo di alfabetizzazione, che rese il ricorso a una scrittura alternativa non più necessario. Nonostante questo, però, il Nüshu ha continuato ad essere tramandato e molte donne hanno continuato e continuano ad apprenderlo.
Falcini, con l’aiuto della professoressa dell’Università Tsinghua, Zhao Liming, studiosa del Nüshu, ci fa conoscere le loro storie e anche i loro volti. Il libro, infatti, è costellato di fotografie che ci portano in angoli remoti della Cina, caratterizzati da atmosfere di un tempo perduto la cui memoria continua ad essere tramandata. In quei luoghi ancora oggi si incontrano donne impegnate nella realizzazione di oggetti decorati con i caratteri del Nüshu. Come nel passato, scrivono i caratteri femminili su stoffa, carta e ventagli. Accanto alla scrittura, poi, risuonano i canti che, intonati in coro, raccontano aspetti della vita delle donne e della società in cui vivevano. Alcuni di questi canti sono stati tradotti dall’autrice per farne comprendere sia il contenuto che le caratteristiche linguistiche. Ci sono donne che in questi canti hanno racchiuso tutta la loro sofferenza e proprio per questo non riescono nemmeno più a cantarli.
Particolarmente interessante la parte in cui l’autrice racconta la vita delle donne, fin dall’infanzia, nei villaggi del Nüshu. Dalla fasciatura dei piedi in tenera età, che segnava drammaticamente la loro vita mettendo fine alla loro spensieratezza, al rito del laotong, che legava per la vita due bambine, coetanee, con la stessa posizione sociale e di aspetto simile. Un rito durante il quale il Nüshu ricopriva un ruolo di primo piano. Una delle due, infatti, doveva scrivere una “proposta di unione” in Nüshu su un ventaglio, a cui l’altra rispondeva scrivendo su un altro ventaglio.
Anche nel momento del matrimonio il Nüshu aveva un suo spazio. Nei giorni precedenti al matrimonio, infatti, venivano celebrati diversi riti durante i quali la futura sposa recitava i “canti della sofferenza” e le amiche nubili che stavano con lei scrivevano in Nüshu, ricamavano e cantavano. Tre giorni dopo il matrimonio, alla sposa veniva donato il Libro del terzo giorno (sanzhaoshu), in cui le prime pagine erano compilate dalla madre, dalle sorelle e dalle amiche, che oltre a rammaricarsi per il distacco dalla novella sposa, esprimevano i loro auguri e consigli, mentre le altre pagine erano lasciate in bianco, pronte per essere scritte dalla sposa nel corso della sua vita.
Dopo il matrimonio, in occasione di feste tradizionali, quando le donne potevano recarsi in visita ai templi, lasciavano messaggi scritti in Nüshu in cui davano sfogo a pensieri e sofferenze. Infine, il Nüshu restava accanto a loro anche dopo la morte, visto il Libro del terzo giorno, ventagli, cinture e altri manufatti realizzati in vita venivano sepolti insieme alla sua salma.
Nel 1995 il Nüshu è stato dichiarato Patrimonio mondiale dell’umanità tra le lingue in pericolo di estinzione. Il fenomeno ha assunto, quindi, una rilevanza diversa per quei villaggi che ne preservano la tradizione. Pur essendosi sviluppato maggiore interesse nei suoi confronti, a volte esso è connesso più alle implicazioni commerciali che alla reale volontà di preservare il passato.
Ma grazie al lavoro di diversi studiosi che continuano a studiare questo fenomeno fin dalla sua scoperta all’inizio degli anni Ottanta, si sta riuscendo a preservarne l’autenticità. Un aspetto che Giulia Falcini sottolinea a più riprese nel testo. Il suo libro è ricco di informazioni dettagliate, di aneddoti interessanti e di testimonianze dirette, che fanno trapelare ad ogni riga l’impegno e la passione con cui l’autrice ha portato avanti le sue ricerche sul campo.
Lea Vendramel per Cina in Italia – agosto 2020