Jessamine Chan racconta la storia di una donna che sbaglia, alla quale, nonostante un percorso lungo e doloroso, non viene concessa la possibilità di rimediare
Quale madre non ha avuto una brutta giornata? Chi non ha fatto degli errori con un figlio piccolo? Chi non si è sentito in trappola sotto la pressione costante di cercare di conciliare tutto sentendo di non riuscirci? Sono tutti interrogativi che leggendo La scuola per le buone madri, romanzo d’esordio di Jessamine Chan tradotto da Simona Vinci e pubblicato da Mondadori, vengono inevitabilmente in mente.
Il romanzo si apre proprio con la «brutta giornata» di Frida. Una giornata in cui tutto va storto, in cui seppur stremata dalla mancanza di sonno cerca di dividersi tra la figlia da accudire e il lavoro da consegnare. È sola Frida: sono lontani i suoi genitori, cinesi immigrati in America che hanno fatto per lei enormi sacrifici; vive ormai con un’altra donna il suo ex marito Gust, che l’ha lasciata per una ragazza più giovane.
Non può contare su nessun altro se non su sé stessa. Non vede altra soluzione che mettere la piccola Harriet nel suo girello e uscire. Del resto farà in fretta, si fermerà solo a prendere un caffè e poi correrà in ufficio a recuperare il fascicolo che le serve per completare il suo lavoro. Ma perde la cognizione del tempo e non si rende conto che sono già passate due ore da quando si è chiusa la porta di casa alle spalle.
Due ore in cui i suoi vicini allarmati dai pianti della bambina hanno chiamato la polizia facendo finire Frida nel mirino del Tribunale della famiglia, che la accusa di negligenza e abbandono e la manda per un anno in una scuola di rieducazione sperimentale per madri che non sono buone madri.
«Sono una cattiva madre, ma sto imparando ad essere buona».
Questo sono costrette a ripetere con insistenza le donne rinchiuse con Frida. Ognuna ha una storia diversa, una colpa diversa, una sofferenza diversa. Ma tutte devono affrontare lo stesso percorso che, passo dopo passo, dovrebbe aiutarle a imparare ad essere delle buone madri.
Un percorso in cui il posto dei loro figli sarà preso da bambole-robot programmate per cogliere e registrare ogni loro atteggiamento ed emozione. Un percorso fatto di sofferenza e privazione. Un percorso il cui esito non è affatto scontato fino alla fine.
Non è detto, infatti, che queste madri diventino buone madri e possano tornare ad abbracciare i loro figli. C’è chi non regge la pressione, chi si toglie la vita, chi evade, chi non supera i test e chi li supera ma comunque non basta.
C’è anche la scuola per buoni padri, ma lì le regole sono diverse, meno rigide. Una differenza che rispecchia l’atteggiamento insito nella società contemporanea, che dalle madri esige perfezione, senza deroghe. Alle madri non sono concessi errori, non sono ammesse lamentele, non è permessa stanchezza. E chi non rientra nei canoni di perfezione imposti dalla società e raccontati con una cieca retorica che alle madri non fa sconti diventa oggetto di critiche e giudizi.
Ma le madri raccontate da Jessamine Chan non sono perfette e non cercano di esserlo. Sono madri che devono fare i conti con il dolore, con le difficoltà, più o meno gravi, che scandiscono la vita quotidiana. La società, però, non le sostiene, si limita a condannarle senza appello, sottoponendole a una rieducazione rigidamente codificata, senza tenere conto dell’individualità e della storia di ognuna di loro.
Per il suo romanzo d’esordio Jessamine Chan, quindi, sceglie il tema della maternità e ne sviscera le zone d’ombra e i momenti più bui, trasmettendo tutta l’angoscia e i sensi di colpa che attanagliano la protagonista, ma anche i suoi bisogni e le sue contraddizioni.
Il risultato è una distopia femminista che coinvolge il lettore fino all’ultima pagina, provocandogli a tratti un senso di fastidio misto a rabbia, che lascia l’amaro in bocca.